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lunedì 27 gennaio 2020

Recensione di AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA di Ruta Sepetys - Ed. GARZANTI -





AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA

Ruta Sepetys
Ed. GARZANTI 2011
Copertina flessibile
Pag. 298
Traduzione: Roberta Scarabelli
€ 6,90 (offerta proposta dalla libreria)


CONOSCIAMO L'AUTRICE

Ruta Sepetys - foto dal web -

Ruta Sepetys è nata in Michigan da genitori rifugiati lituani. Per scrivere Avevano spento anche la luna condusse accurate ricerche in Siberia, visitando campi lavoro, intervistando storici e sopravvissuti che le raccontarono atroci e raccapriccianti aneddoti dell'epoca. Per Garzanti ha pubblicato anche Una stanza piena di sogni.

TRAMA

Lituania, 4 giugno 1941, la polizia fa irruzione in casa di Lina. Il suo reato più grande è quello di esistere e di essere sulla lista nera perché figlia del Rettore dell'Università.
Insieme alla madre e al fratellino verrà stipata nel vagone di uno di quei treni sola andata. Fame, sete, settimane passate sul vagone e poi l'arrivo in Siberia in un campo lavoro dove il freddo, col suo sussurro gelido uccide. 
Ma Lina non scende a compromessi con la sua dignità: quando non è obbligata a lavorare, disegna documentando tutto. Lotta per la sopravvivenza, promettendo che se mai riuscirà ad uscirne viva, onorerà con l'arte la vita stessa e tutte le famiglie sepolte in Siberia.
Tratto da una storia vera, Avevano spento anche la luna squarcia il silenzio su uno dei più grandi genocidi della storia scaturito dalle deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani. 

IMPRESSIONI

Per la Giornata della Memoria ho scelto il romanzo d'esordio dell'autrice. Lo lessi anni fa, e rimasi sconvolta dal racconto straziante delle angherie subite dal popolo lituano, narrate dalla voce di Lina, la protagonista. Ispirato ad una storia vera. Avevano spento anche la luna è uno spaccato di storia quasi sconosciuto al mondo a causa della tendenza alla segretezza e insabbiamento da parte della Russia su uno dei più grandi genocidi europei,  oltre 60 milioni di morti soprattutto per fame, stenti e malattie, quello dei deportati dei Paesi Baltici. Molte più vittime della follia di Hitler, ma parlarne era pericoloso, poteva anche costare la vita. 
Ruta Sepetys, di origine lituana, ha voluto dar voce non solo alla memoria familiare, ma anche ai sopravvissuti dell'invasione di Estonia, Lettonia e Lituania da parte dei sovietici.
Mentre nell'Est Europa Hitler perseguitava gli Ebrei, nei paesi baltici Stalin perseguitava chiunque cercasse di sovvertire la sua egemonia politica.

I lampioni in strada erano spenti ed era quasi buio pesto. Gli agenti marciavano dietro di noi, obbligandoci a tenere il loro passo.

Lina, quindici anni, di origini lituane, ha un sogno, quello di diventare un'artista brava come il suo pittore preferito, Munch. Sta prendendo lezioni per imparare la tecnica. 
La sera del 14 giugno 1941 si era appena messa la camicia da notte, quando arrivarono i sovietici a prelevarla insieme alla madre Elena  e al fratellino Jonas appena undicenne. Non poteva essere, c'era sicuramente un errore. Dove li stavano portando? Lei era la figlia del Rettore dell'Università, perché li avevano fatti salire su quel carro? E suo padre dove era finito?
Era invece proprio quella la condanna: essere lituana, esistere. E quella era la condanna che la accomunava alle altre quarantasei persone stipate sul suo stesso carro diretto ad una serie di vagoni che li avrebbe trasportati in Siberia nei gualg dei campi di lavoro forzato.
Arrivati al vagone, la madre,  Lina e Jonas apprenderanno che anche il padre è stato catturato dai sovietici e verrà deportato insieme a loro nei campi siberiani ma stipato in un altro vagone della disperazione.
Il viaggio in treno durò settimane, strazianti e gelide. Lo scandire del tempo veniva dettato dalla brutalità dei soldati sovietici che si ripercosse gratuitamente sui deportati solo perché "respiravano", privandoli di ogni dignità, anche quella di avere degna sepoltura. I cadaveri delle Persone che non riuscirono a sopravvivere al viaggio venivano lanciati dal treno in corsa, come quello di una madre e della sua  neonata non sopravvissuta al parto perché la madre non aveva latte per allattarla. Madre e figlia furono scagliate fuori dal vagone, la bambina deceduta per la fame, la madre uccisa per aver esternato il suo dolore, figlio della perdita dell'innocente creatura. 
Le ore di Lina sul vagone passarono grazie ai suoi disegni, cronache reali di quanto succedeva a quei poveri disgraziati stipati come scarti da macello su quei vagone. Suo desiderio più grande era quello di comunicare col padre, di poter riunire la famiglia. Il padre stesso le aveva chiesto di non smettere di raccontare storie coi suoi disegni, prima che i sovietici lo dividessero dai suoi cari. Il mondo avrebbe dovuto conoscere la loro storia, il dolore e la disperazione causati dalla follia dittatoriale staliniana.
Ma la realtà era beffarda e distante dai desideri di una bambina lituana, colpevole di esistere.

Vi siete mai chiesti quanto vale una vita umana? Quella mattina la vita di mio fratello valeva un orologio da taschino.

Venduti come bestie da soma ai campi lavoro siberiano, Lina, la madre Elena e il fratellino, si troveranno a vivere situazioni estreme a livello fisico e morale, ma con la promessa di non perdere mai la loro dignità, di non scendere mai a compromessi con la disperazione.
Lina era una ragazzina dal carattere caparbio,  forte e testarda e nonostante le angherie subite, il gelo che le tagliava le mani costrette a lavorare duramente nella steppa siberiana, non ha mai perso il sorriso e l'amore per la vita. Grazie ai suoi disegni, nei quali riversava il grido di speranza contro l'egemonia sovietica, riuscì anche a procurarsi un po' di cibo in più, rispetto a quei miseri 300 grammi di pane. Quello, secondo la dittatura, era il fabbisogno giornaliero equilibrato di un "lavoratore" che scavava a mani nude la gelida steppa anche per dieci ore.

<<Pensi che dovremmo mangiarlo?>> chiese Janina.
All'inizio rimasi scioccata, poi immaginai il corpo carnoso che arrostiva nel nostro barile, come un pollo. Lo toccai di nuovo. Lo presi per un'ala e lo tirai. Era pesante, ma scivolava sulla neve.

La fame era nera, per chi si trovava costretto a convivere insieme a decine di persone ridotte allo stremo, che si davano sui nervi a vicenda, ammassati in una yurta improvvisata su lastre di fango, pietre e ghiaccio e lacere tende a far da tetto, costrette a lavorare  alla mercè di rigide intemperie e dei perfidi aguzzini che erano le guardie del NKVD, precursore di quello che sarebbe poi diventato KGB. 
Bisognava agire d'astuzia, approfittare di ogni occasione di cibo che si presentava davanti, rubacchiando tra i rifiuti o furtivamente, come quando Lina e le sue sventurate compagne trovarono un gufo morto nella neve. Per poterlo cucinare, Lina fu costretta a nasconderlo sotto i vestiti e il misero cappotto fin tanto che i soldati del NKVD non glielo sottraessero. 
Schiacciata dal  peso "morale" di quel cadavere nascosto sotto il cappotto che le bucava il corpo scarno,  Lina era felice di poter aiutare e portare un po' di conforto alla madre malata e alle altre madri che versavano in cattive condizioni di salute a causa degli stenti e della morsa di freddo polare. 
Il gufo arrosto, cucinato con cura e amore dalle donne del campo, era una prelibatezza, quasi come mangiare anatra, un po' coriacea, ad un banchetto reale.

Io dovevo parlare. Avrei scritto tutto nero su bianco, avrei disegnato ogni cosa. Avrebbe aiutato il papà a trovarci.

Nonostante la perdita dei genitori e di altri cari affetti, Lina non perse mai la speranza e il sorriso. Per dodici lunghi anni mai si piegò e  scese a patti con la dittatura sovietica. Conobbe  la violenza, l'odio, il rancore verso una delle guardie del NKVD, ma non ne fece mai sua prerogativa di vita, anche se ne avrebbe avuto tutto il diritto, anzi tutte le angherie subite, la durezza estrema della vita nel campo, alimentarono in lei l'amore verso la vita, unica e preziosa e verso un ragazzo, lituano come lei  conosciuto nel campo. 
In mezzo a quel gelo e alla disperazione troverà anche  la forza per motivare il fratello a non cedere, per spingerlo a credere ancora in un futuro libero. Avrebbero ritrovato il loro padre e avrebbero fatto ritorno nella loro casa sotto alle loro calde coperte.   

Il successo significava sopravvivere. Il fallimento significava morire. Io volevo la vita. Volevo sopravvivere.

Lina amava la vita, la libertà e i suoi disegni ispirati al suo amatissimo Munch, a testimonianza del famoso "urlo" come accusa contro le torture subite, furono affidati ad un contenitore di vetro rinvenuto dopo la liberazione della Lituania, divenuti testimonianza di tutto il male subito durante la prigionia. 
I personaggi di questo romanzo sono inventanti, eccetto la figura di un medico che arrivò nel campo ad infondere speranza e amore, ma i fatti sono reali. Il sangue versato, la paura, il gelo che tagliava le mani, la fame che corrodeva i corpi denutriti sono reali, così come i sentimenti contrastanti provati da Lina e dalle migliaia di persone sottomesse alla persecuzione sovietica. 


Un messaggio forte e straziante che servirà da spunto di riflessione per le nuove generazioni, affinché il circolo vizioso della Storia sia destinato ad interrompersi. Ma siamo ancora ben lontani ... 
La Giornata della Memoria è anche questo spaccato di Storia, taciuto per anni dal Governo sovietico; questo romanzo è un modo semplice e avvincente per conoscere la tragedia di un popolo che aveva solo la colpa di esistere. Buona lettura, 
Tania C.

Recensione: BASTA UN PEZZO DI MARE di LUDOVICA DELLA BOSCA - Ed. CORBACCIO -

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