SUI BINARI DELL'OLOCAUSTO
Budapest, Museo La Casa del Terrore
(Viaggio a Budapest, gennaio 2022)
In occasione della Giornata della Shoah, già da qualche anno
ho iniziato un mio personale ''tour della Memoria'', seguendo i ''binari
dell'Olocausto''.
Quest'anno la meta è stata una sorpresa nella quale non speravo, visti i tempi: Budapest col suo Museo La
Casa del Terrore e la Sinagoga Grande, la più grande d'Europa, ma non è della Sinagoga che desidero raccontarvi.
Nonostante il Covid e il freddo, insieme al mio fidanzato,
siamo partiti fiduciosi di passare qualche giornata immersi nella storia e in
una cultura diversa da quella italiana.
Soffrendo terribilmente il caldo, sono rimasta un po’ delusa
dal mite inverno che sembra essersi abbattuto sulla città: nemmeno un filino di
neve e le temperature abbondantemente sopra lo 0. Improponibile per il periodo!
Ma, alla fine, il sole e la temperatura piacevole, ci ha permesso di goderci
appieno la città contando solo sulle nostre gambe, accompagnandoci dolcemente fino alla Casa del Terrore.
Per chi visita o vorrà visitare Budapest, potrà trovare Terror Haza al nr. 60 di
Andrassy Boulevard, una via maestosa e signorile, che ricorda vagamente gli
eleganti viali di Vienna e Parigi, ma dall'aria più austera.
Tra l'altro abbiamo avuto una gran fortuna a poter visitare Terror Haza, perché il giorno dopo la nostra visita, il museo avrebbe chiuso per manutenzione per un lungo periodo.
Inaugurato nel 2002, il museo sorge tra le mura di un
imponente palazzo di fine architettura neo-rinascimentale.
La Casa del Terrore si erge maestosamente tra gli altri eleganti
palazzi, dipinta di un grigio brillante che non la fa passare inosservata,
grazie ad un imponente tettuccio che circonda il palazzo e riporta la scritta
Terror, ben leggibile, correttamente, dall'alto.
Il palazzo fu costruito nel 1880 e nel 1937 venne usato come
sede del partito filo-nazista della Croce Frecciata Ungherese.
Nel 1944, quando il furore devastante del regime del terrore piegò anche l’Ungheria, il paese divenne un luogo di esilio e martirio, fulcro del regime nazi-comunista ungherese.
L’Ungheria è riuscita a sopravvivere a due regimi
dittatoriali del Terrore, iniziando da quello Nazista, quello Comunista subito
dopo.
A causa delle atrocità subite, lo Stato ha fortemente voluto
la costruzione di un Museo della Memoria, non solo per ricordare tutte le
vittime cadute per mano del nazismo ma anche per portare a conoscenza
delle reali condizioni di vita del Paese durante l’occupazione terrorista.
Nel dicembre del 2000, la
˝The Public Foundation for the Research of Central and East European
History and Society˝ acquistò l’elegante palazzo di Boulevard Andrassy nr.60, proprio per creare un Museo della Memoria.
I lavori durarono due anni e, nel 2002 il museo aprì le sue
porte al popolo col nome di “Terror Haza – Casa del Terrore’’ , diventando il
simbolo di un paese martoriato ma capace di risorgere senza dimenticare.
La visita al museo
comincia dal marciapiede antistante l’entrata, dove si trovano le foto e mozziconi di ceri accesi a commemorazione di alcune
delle vittime, non solo ebree, perite per mano dei nazisti.
Alcuni manifesti raccontano, cronologicamente, la storia del
paese, dal regime del terrore fino alla rivoluzione ungherese del 1956.
Una ‘’sorpresa’’, è stata quella di trovare una fetta di Muro di Berlino, perfettamente conservata, proprio davanti all’entrata del Museo. Mi ha stupito molto in quanto il pezzo di muro e tutte gli altri reperti in mostra non riportino atti di vandalismo o di usura meccanica, indotti dall'essere umano.
Essendo un ''monumenti'' pubblici, alla mercé di chiunque, l'area di stallo è molto curata e ben conservata, senza cartacce a fare da sfondo o ''graffiti'' fluorescenti a lordare le opere in mostra. Segno di grande civiltà. Del resto tutta la città è ben tenuta, pulita e sicura.
Due enormi lastre di granito, una rossastra e una nera, si ergono ai lati dell'entrata, a testimoniare le vittime dei due regimi che, pur essendo diametralmente opposti, hanno portato a pesanti perdite, facendo passare forte e chiaro il messaggio che le vittime non sono di serie A o B, non hanno colore e razza, ma sono solo vittime perite per mano di un odio senza ragione e distruttivo.
Dopo averci fatto togliere la giacca, borse, cellulari e macchine da presa, nel museo non si possono, giustamente, fare fotografie, il viaggio nella storia comincia dal cortile dove è situata la carcassa di un carro armato t54 appartenuto ai sovietici e che nel '56 soffocò la rivoluzione ungherese, spargendo il sangue di chi stava lottando per il diritto alla libertà.
L'ambiente è soffocante, cupo, l'aria è pesante, come se i dissennatori giocassero ai quattro cantoni coi visitatori, cancellando ogni ricordo felice.
Per chi, come noi, non ha preso l'audio guida in italiano, fermarci a leggere le varie targhe e cartelli in inglese, molto scolastico, è d'obbligo per capire tutti i reperti contenuti nelle varie stanze, cullati da una colonna sonora degna di Bernard Herrmann.
Tra poster che esaltano il socialismo, come sinonimo di nuova rinascita, immagini di ''grandi dittatori'' osannati per le loro gesta, radio e transistor d'epoca perfettamente conservati, la bauxite simbolo della nuova ricchezza, video testimonianze di sopravvissuti, il percorso del museo conduce in una stanza che, dopo il primo stupore e incredulità, mi ha lasciato un grande senso di vuoto misto ad amarezza:
il corridoio delle saponette.
Mentre i nazisti tedeschi deportarono gli ebrei nei campi di concentramento, i comunisti sovietici deportarono chiunque avesse origini tedesche o venisse considerato nemico del regime, nei gulag.
Solo nel 2000 l'ultimo prigioniero di guerra sovietico riuscì a fare ritorno a casa
Ma l'essenza del museo si svela tutta raggiungendo l'ultima tappa della visita, le carceri situate nei sotterranei.
Un ascensore di cristallo alquanto lugubre e senza spazio-tempo, spinto a mano da un qualche ''Gobbo di Notre-Dame'' indigeno, conduce nei sotterranei, permettendo di guardare un filmato sottotitolato in inglese, scandito dal racconto di una voce aspra, priva di ogni emozione, sui rastrellamenti e le angherie subiti nel Paese.
Il senso di tirannia che si respira tra le anguste cellette, fedelmente ricostruite e la stanza delle torture è tutt'oggi opprimente, chiude la gola. Le lacrime salgono agli occhi senza freni, rotolando giù per le guance e raggiungendo le labbra col loro sapore indigesto salato e amaro.
Perché?
È la domanda che continuava (e continua) a martellarmi in testa mentre ho voluto provare ad infilarmi in una celletta di tortura che a malapena riusciva a contenermi e che faceva risuonare in strada il canto disperato dei condannati.
L'unica via per uscire da quell'ambiente angusto, dove aleggiano perpetue le grida di aiuto delle vittime, è quella di fare una piccola sosta in una stanza ''sacrario'' per poi attraversare l'ultimo corridoio del terrore, quello dei loro assassini.
Un corridoio dalle pareti nere e rosse che ricorda, per la perfetta atmosfera ricreata, il girone dantesco di ''Caron dimonio dagli occhi di bragia'' , dove vengono messe in mostra le foto di centinaia di aguzzini e assassini nazisti.
Uomini, ragazzi, donne, probabilmente padri e madri, figli giovanissimi venduti alla causa, dallo sguardo fiero e onorato di servire i deliri di un odio folle, mattatore.
Uomini, ragazzi, donne, sui quali avrei tanto voluto letteralmente e meccanicamente sputare in faccia tutto il mio disprezzo, per coprire quell'immotivato odio semantico che arde nei loro occhi, considerando il fatto che alcuni di loro sono ancora vivi.
Perché, continuo a ripetermi oggi, tanta cattiveria e tanta follia?
Come si può continuare a vivere avendo sulla coscienza migliaia di innocenti uccisi per mano della propria follia?
Risposte che probabilmente non avrò mai, visto che la storia sembra non aver ancora insegnato all'uomo a rispettare sé stesso e il prossimo.
Tania C.
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